di Giorgia Oss
Con la sentenza n. 22256 depositata l’8 giugno 2021, la Corte di Cassazione, sezione IV penale, è stata chiamata ad approfondire il concetto di “interesse” o “vantaggio” dell’ente nell’ambito degli infortuni sul lavoro.
Come noto, secondo l’art. 25 septies d.lgs. 231/2001, i reati di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime, se commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, costituiscono “reati presupposto” ai sensi del medesimo decreto. Un tanto, tuttavia, alla condizione che da tali fatti derivi un “interesse” ovvero un “vantaggio” a favore dell’ente stesso. Proprio i concetti di interesse o vantaggio sono stati oggetto di vivaci discussioni giurisprudenziali, dal momento che, trattandosi di reati colposi, essi non vanno parametrati sull’evento dannoso (di certo, non vantaggioso né voluto dalla società), bensì sulla condotta antecedente.
A prescindere dalla vicenda concreta trattata, la sentenza è particolarmente interessante perché contiene un’efficace sintesi dei seguenti principi, elaborati negli anni dalla Suprema Corte in materia di interesse e vantaggio:
1.) tali criteri di imputazione oggettiva sono alternativi e concorrenti tra loro;
2.) il criterio soggettivo dell’interesse va apprezzato ex ante, cioè al momento della commissione del fatto, mentre quello oggettivo del vantaggio è valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito;
3.) ricorre il requisito dell’interesse qualora l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente;
4.) sussiste il requisito del vantaggio qualora la persona fisica ha violato le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto o della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso.
Chiariti questi aspetti, ormai quasi incontestati nel panorama giurisprudenziale, la Corte affronta un tema non altrettanto pacifico, e si chiede se, ai fini dell’accertamento della sussistenza del requisito dell’interesse, le violazioni della normativa antiinfortunistica debbano essere sistematiche (vale a dire, ripetute nel tempo ed inserite in una consapevole policy aziendale volta al risparmio di spesa a scapito della sicurezza), oppure se rilevino anche trasgressioni isolate, dovute ad iniziative estemporanee. In questo secondo filone interpretativo, tuttavia, la sentenza in commento ravvisa il rischio di una deriva verso l’applicazione automatica della norma, che ne dilati a dismisura l’ambito di operatività ad ogni caso di infortunio conseguente alla mancata adozione di una misura di prevenzione, quasi a prescindere da un attento esame della politica d’impresa sulla sicurezza.
Per evitare questo rischio, ove la violazione è isolata ed il risparmio di spese è esiguo, la sentenza esclude che si possa raffigurare l’interesse dell’ente. Perciò, è necessario provare in modo particolarmente dettagliato la sussistenza del vantaggio.
Questa, quindi, la conclusione della Suprema Corte: “Ove il giudice di merito accerti l’esiguità del risparmio di spesa derivante dall’omissione delle cautele dovute, in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro, ai fini del riconoscimento del requisito del vantaggio occorre la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quella della tutela della salute dei lavoratori quale conseguenza delle cautele omesse: la prova, cioè, dell’effettivo, apprezzabile (cioè non irrisorio) vantaggio (consistente nel risparmio di spesa o nella massimizzazione della produzione, che può derivare, anche, dall’omissione di una singola cautela e anche dalla conseguente mera riduzione dei tempi di lavorazione) non desumibile, sic et simpliciter, dall’omessa adozione della misura di prevenzione dovuta.”