La Suprema Corte precisa la responsabilità civile nelle attività sportive

di Stefan Schwitzer

Di recente, la Corte di cassazione, con ordinanza di data 19.11.2021, n. 35602, si è nuovamente pronunciata in materia di responsabilità civile da attività sportive, facendo delle precisazioni di particolare interesse.

In generale, il tema riguarda le attività sportive a contatto fisico, contraddistinte dall’uso necessario (come il pugilato) o eventuale (come il calcio) di una certa violenza tra i partecipanti. Praticando tali sport, non è infatti infrequente che uno dei partecipanti subisca delle lesioni: si pensi a un calciatore che a causa di un intervento a gamba tesa da parte dell’avversario si ferisca gravemente alla caviglia. In tali casi spesso ci si pone la seguente domanda: Quali sono le conseguenze giuridiche? Da un punto di vista civilistico, bisogna tra l’altro analizzare se e in presenza di quali presupposti il partecipante, che con il suo comportamento ha causato il fatto dannoso, sia obbligato al risarcimento dei danni nei confronti del soggetto leso.

In merito la giurisprudenza di legittimità ha osservato come “il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco. Sussiste, pertanto, in ogni caso la responsabilità dell’agente in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere, anche se gli stessi non integrino una violazione delle regole dell’attività svolta; la responsabilità non sussiste invece se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell’attività, e non sussiste neppure se, pur in presenza di violazione delle regole proprie dell’attività sportiva specificamente svolta, l’atto sia a questa funzionalmente connesso. In entrambi i casi, tuttavia il nesso funzionale con l’attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano” (Cass. civile, sez. III, 10.5.2018, n. 11270; Cass. civile, sez. III, 8.8.2002, n. 12012).

Oggetto del procedimento deciso dalla Suprema Corte con l’indicata ordinanza è un incidente occorso nell’ambito di una prova di esame di arti marziali. Il candidato, nel corso dell’esame per il conseguimento della “cintura nera”, aveva colpito il suo avversario, persona che, ai fini dell’esame, aveva assunto il ruolo di antagonista, procurandogli una deviazione del setto nasale.

Rigettata la domanda risarcitoria sia in primo che in secondo grado, il danneggiato ricorre in Cassazione lamentando una violazione dell’art. 2043 c.c. e, in particolare, l’omessa distinzione tra lo svolgimento di un’attività sportiva in senso stretto e le attività svolte per superare un esame di un determinato livello.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso e, così facendo, pare discostarsi dall’orientamento giurisprudenziale consolidato che, in applicazione del suesposto criterio ed entro tali limiti, riteneva sussistente una causa di giustificazione, con esclusione dell’antigiuridicità del fatto e così della responsabilità del danneggiante (a riguardo si veda, a titolo d’esempio, Cass. penale, sez. V, 29.1.2018, n. 21120; Cass. penale, sez. IV, 26.11.2015, n. 9559; Cass. civile, sez. III, 30.3.2011, n. 7247). Con l’ordinanza in esame la Suprema Corte, invece, analizza la questione della rilevanza giuridica dell’esercizio di un’attività sportiva e dell’accettazione del rischio sul piano della colpa.

La Corte, in concreto, richiamando propria giurisprudenza risalente per cui “l’attività agonistica implica l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell’alea normale ricadono sugli stessi” (Cass. civile, sez. III, 20.2.1997, n. 1564; Cass. civile, sez. III, 22.10.2004, n. 20597; Cass. civile, sez. III, 27.10.2005, n. 20908), si riferisce alla regola dell’accettazione del rischio, precisando, però, che sia necessario distinguere tra

  1. danno causato da una condotta conforme al regolamento del gioco, che “si connota in termini di imprevedibilità in ragione dello scopo della norma violata: le regole del gioco infatti possono essere a presidio del gioco stesso, come a presidio della incolumità dell’avversario (in alcuni sport di contatto, il divieto di colpi bassi). In questi casi se lo sportivo procura danno, pur nel rispetto della regola di gioco, il danno può non porsi a carico del danneggiante per difetto di colpa”; e
  2. danno causato da una condotta colpevole difforme al regolamento del gioco, e, in specifico, a regole dirette alla tutela dell’incolumità personale. In tale caso, secondo la Corte, “non si tratta di una scriminante, né tipica (consenso dell’avente diritto), né atipica, che altrimenti, l’attività sportiva sarebbe da considerare come illecita, ed invece è attività consentita e socialmente utile. Piuttosto, si tratta di valutare la rilevanza della colpa”.

In base a ciò la Suprema Corte rileva che il singolo atleta, che partecipa ad una determinata attività sportiva, non accetta il rischio di subire ogni danno possibilmente derivante dal suo svolgimento. Ad esempio, non accetta il rischio di subire danni che gli vengano dolosamente causati dall’avversario. “L’atleta accetta il rischio normalmente connesso a quel tipo di sport, non ogni rischio derivante dalla condotta altrui, anche dolosa.

E’ dunque giustamente escluso dalla regola dell’accettazione del rischio il fatto doloso o dovuto a colpa particolarmente grave (Cass. 12012/ 2002)”.

Con riferimento all’accertamento della colpa, la Corte precisa, da un lato, la necessità di individuare la regola del gioco concretamente violata e il suo scopo e, dall’altro, la possibile rilevanza delle concrete qualità dello sportivo (professionista o dilettante).

In conclusione, la Corte rigetta il ricorso, rilevando che la regola esposta è applicabile non solo per il concreto svolgimento dell’attività sportiva, ma anche per le prove di esame: “Cosi che, essendo il motivo [di ricorso] basato sulla distinzione tra attività sportiva vera e propria e prova di esame, non può essere accolto, in quanto le regole dell’una sono identiche per l’altra, la distinzione essendo di mera finalità del medesimo sport, ossia della medesima condotta, finalità (esame sportivo, anziché gara, o allenamento) che non incide sulla valutazione della colpa rispetto allo scopo della regola violata”.

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