[vc_row css=”.vc_custom_1587559470147{padding-right: 7% !important;padding-left: 7% !important;}”][vc_column][vc_column_text]di Christian Dorigatti
Non c’era sicuramente bisogno del Covid-19 per capire quanto internet fosse importante nella nostra vita. Tuttavia, il lockdown provocato dall’emergenza sanitaria ha fatto sì che per molti di noi la rete, da strumento alternativo di lavoro, comunicazione e svago, si sia trasformata nell’unico mezzo a disposizione per continuare a lavorare (smart working), istruirsi (video-lezioni), essere curati (telemedicina), vedere altre persone/riunirsi (videochiamate/chiamate di gruppo) e svagarsi.
Ecco quindi tornare prepotentemente alla ribalta il dibattito sul diritto di accesso a internet, diritto che già 10 anni fa il compianto prof. Stefano Rodotà aveva proposto di riconoscere come fondamentale con l’introduzione di un nuovo art. 21-bis nella Costituzione (“Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire le violazioni dei diritti di cui al Titolo I della parte I”) e che 5 anni dopo aveva scolpito magistralmente nell’art. 2 della Dichiarazione dei diritti in Internet, elaborata dalla Commissione parlamentare per i diritti e i doveri relativi ad Internet.
Nel solco tracciato da Rodotà è entrato in vigore 4 anni fa il Regolamento UE 2015/2120, che ha provveduto “a definire norme comuni per garantire un trattamento equo e non discriminatorio del traffico nella fornitura di servizi di accesso a Internet e tutelare i relativi diritti degli utenti finali” (considerando 1), sancendo che “Gli utenti finali hanno il diritto di accedere a informazioni […] tramite il servizio di accesso a Internet” (art. 3).
Tuttavia, proprio di recente, quando ve ne era più bisogno, tale oramai irrinunciabile diritto di accesso a internet è stato messo in discussione. Esemplare è stato il caso del crash, in cui è andato il sito dell’INPS – “un sistema poco strutturato per funzionare in Cloud, con prestazioni appena sufficienti per il normale funzionamento e che da un giorno all’altro si è trovato a dover fronteggiare carichi 100 volte maggiori” (J. MARINO, in https://www.mitomorrow.it/tecnologia/5g-e-coronavirus/) –, crash che ha impedito a migliaia di cittadini di presentare domanda per ottenere una delle indennità previste per fronteggiare l’emergenza coronavirus, escludendoli (momentaneamente) dalle relative procedure. Tale blocco non ha purtroppo rappresentato un unicum nel panorama nazionale, dato che la stessa sorte è successivamente toccata al sito governativo Fondidigaranzia.it, i cui utenti si sono visti impossibilitati a richiedere un finanziamento destinato ad aziende, artigiani e professionisti.
I casi INPS e Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese sono davvero paradigmatici: se le nostre infrastrutture di rete non sono idonee a garantire a tutti il diritto di accedere ad internet, viene negato il presupposto necessario per l’esercizio di (tanti) diritti fondamentali. Non è un caso, dunque, che pochi giorni dopo il clamoroso blocco del sito dell’INPS il Presidente del Consiglio abbia detto che “internet dovrebbe essere un diritto inserito in Costituzione”.
Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Tuttavia, quello che appare ora davvero urgente è che a tale diritto venga data concreta attuazione, rimuovendo ed impedendo pro futuro la cd. digital divide, vale a dire la disparità che si crea tra coloro che sono in possesso delle conoscenze e delle dotazioni tecnologiche necessarie per una partecipazione attiva e consapevole all’attuale società dell’informazione e quanti, invece, ne restano esclusi per motivazioni di ordine culturale e socio-economico. Per fare ciò non basta agevolare l’acquisto di personal computer, la frequentazione di corsi di alfabetizzazione informatica e lo svecchiamento delle esistenti infrastrutture di rete, poiché, soprattutto in una società globalizzata quale quella in cui ci troviamo a vivere, vanno tutelati sia il singolo, sia l’impresa nei confronti di qualunque operatore (economico o meno) della rete a livello mondiale.
Invero, per poter godere a pieno dei diritti tutelati dalla nostra Costituzione e per non rimanere indietro rispetto agli altri Paesi e alle altre economie, è necessario che venga data a tutti, e velocemente, la possibilità di connettersi ad internet alla velocità necessaria per accedere ai servizi del 5G. Il passaggio al 5G migliorerà la fornitura di servizi mobili a banda larga e, rispetto alle precedenti tecnologie wireless, dovrebbe supportare una vasta gamma di nuove soluzioni. Le tecnologie digitali basate sull’intelligenza artificiale, i servizi della smart city (quali monitoraggio del territorio, gestione del trasporto pubblico, illuminazione stradale, gestione dei rifiuti, controllo dei parcheggi, digitalizzazione degli edifici, ecc.), della smart home (casa connessa, con ad es. frigoriferi che ordinano direttamente la spesa) e della smart health (chirurgia da remoto, ambulanze smart, dispositivi per la misurazione dei parametri corporei durante l’attività fisica, robotica di servizio e riabilitativa, medical cognitive tutor, Internet of Things per la telemedicina), i sistemi di automazione intelligente, la realtà virtuale e i droni sono solo alcune delle soluzioni che sfrutteranno le reti 5G per aumentare la produttività e accelerare l’innovazione.
Il diritto di accesso nel 5G, pertanto, rappresenta più di una questione di uguaglianza digitale, perché significa “vivere in un mondo piuttosto che in un altro. Si tratta addirittura di vivere nel presente oppure nel passato. Due soggetti di identica età biologica possono trovarsi a vivere nello stesso identico periodo a dieci anni di distanza perché uno accede al 5G ed è pervaso dalle abilità digitali forgiate dall’Intelligenza Artificiale sulla scorta dei trilioni di Big Data liberati dall’IoT mentre l’altro non riesce ad accedere al 5G e resta indietro in una internet di dieci anni prima” (D. BIANCHI, Diritto a Internet nel 5G, danno da digital divide e COVID-19. Quando l’accesso è una questione di vita o di morte sociale, in www.dirittoegiustizia.it).
Il 2020 sarebbe dovuto essere l’anno di avvio del mercato 5G, con le compagnie telefoniche aggiudicatrici dei diritti di utilizzo delle frequenze pronte a partire e le imprese fortemente interessate a dare avvio alla nuova generazione di intelligenza artificiale e IoT; il 2021 avrebbe dovuto vedere il tramonto del 4G. L’auspicio è che l’emergenza sanitaria in atto non faccia perdere lo status di priorità strategica nazionale alla rete 5G, cosa questa che sarebbe davvero paradossale, considerando che in futuro un’emergenza sanitaria come il Covid-19 potrebbe essere affrontata meglio proprio grazie alla tecnologia 5G. Invero, tale tecnologia, già positivamente sperimentata in Cina, permetterebbe ad es. screening dei pazienti a distanza, analisi esaurienti del contagio, ambulanze autonome connesse agli ospedali e (nella fase post-emergenziale) telecamere termiche e altri dispositivi per la misurazione di dati biometrici a distanza utili a evitare nuovi picchi (v. in argomento, P. CRIPPA, Le potenzialità della tecnologia 5G per gestire le emergenze sanitarie del futuro, in http://www.cesi-italia.org/contents/Analisi/CeSI_potenzialita__5G_per_emergenze_sanitarie.pdf).
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